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Internet, più consapevolezza per il bene delle reti sociali. Ecco le istruzioni per l’uso

CSV Milano2022-06-10T14:30:03+02:00
Pubblicato il
18/01/2019
Di CSV Milano
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Gino Mazzoli spiega come la rivoluzione informativa ha trasformato l’immaginario e le nostre abitudini, stravolgendo legami e collaborazioni. Ecco come invertire la rotta

di Gino Mazzoli, esperto di welfare e processi partecipativi

Diamo tutti stupidamente per scontato ciò che scontato non è più: costruire legami e collaborazione. In un tempo in cui passiamo la maggior parte della nostra vita da soli dietro uno strumento informatico velocissimo, la costruzione di legami tra persone è una conquista che non può più essere considerata un fatto naturale. Per cui mettere a punto indicatori, algoritmi, piattaforme senza tenere presente l’educazione a questo vecchia competenza in disuso è tempo perso.

Da tempo la nostra vita sociale è travolta, scossa, ribaltata dalla rivoluzione informatica che sta trasformando l’immaginario e le nostre abitudini. Se non si assume questa grande novità e non si registrano le nostre azioni su questo cambiamento non si può più parlare di welfare, di politica, e nemmeno di pastorale.

Sul piano politico la velocità disintermedia le istituzioni (mass media e partiti politici incidono ormai meno di Facebook e Twitter, ecc. che si propongono come nuove istituzioni della società globale). Le istituzioni tradizionali sono vissute come troppo lente per stare al passo con questa velocità. L’illusione di avere il mondo tra le dita induce una bulimia di esperienze e di beni.

Le persone coltivano aspettative onnipotenti e se le istituzioni non sono in grado di soddisfarle vengono delegittimate. Riemerge il mito della democrazia diretta attratto dall’idea che la tecnologia sia un arbitro neutrale e dimenticando le faticose mediazioni relative alle zone opache, alle potenzialità inespresse che devono essere accompagnate a crescere, tipiche della complessità dell’umano. Sta avanzando una partecipazione che non è istanza di democrazia, ma un disperato urlo di chi dice «mi vedi? vorrei tutto ciò che questo mondo nuovo e meraviglioso mi induce a desiderare, ma ho anche paura di queste novità che non controllo. Ti vuoi occupare di me? Mi garantisci che almeno tu sai come stanno le cose e le puoi mettere in ordine?».

Anche la crisi economica, mescolata alle attese smisurate che la cultura dominante impone alle nostre esistenze, diffondono risentimento e sfiducia verso le istituzioni. Fino a un quarto di secolo fa la precarietà economica veniva assorbita dalle dotazioni relazionali di persone e famiglie; ora, la povertà di reti è l’elemento qualificante della nuova vulnerabilità del ceto medio, il fenomeno sociale e politico più rilevante dell’inizio del millennio nell’Occidente.

La nuova vulnerabilità è un’area molto consistente di cittadini (nel nord Italia, considerando non solo il reddito, ma anche la precarietà lavorativa, l’indebitamento e i disturbi psichici, riguarda circa il 30% della popolazione. Si colloca all’incrocio tra evaporazione delle reti sociali e familiari ed eventi che, pur appartenendo allo sviluppo naturale della vita, diventano spesso causa di impoverimento se il patrimonio di reti è debole. La permanenza di più anni nell’area della vulnerabilità, ha fatto transitare queste famiglie da una condizione di esodo silente dalla cittadinanza verso una posizione di risentimento. Si è passati dalla vergogna alla rivendicazione. La crisi del 2008 tarda a venire elaborata collettivamente in modo adeguato. Quello che viene definito oggi “populismo” sembra essere la forma paranoica di questa elaborazione: si tende a rifiutare il limite, a perpetuare l’istanza bulimica e ci si rapporta ai rappresentanti politici e tecnici delle istituzioni chiedendo beni, soldi e servizi, ma nel profondo esigendo soprattutto rassicurazione.

Servono corpi intermedi
In un contesto nel quale ci sono meno soldi nelle istituzioni, reti sociali indebolite e più problemi tra le persone dobbiamo generare risposte con tutta la comunità. Questo non significa far ricadere la crisi sui cittadini, ma aumentare il potenziale di resilienza della gente e dunque la democrazia. È questo il cuore del welfare generativo indispensabile oggi.
Se il nodo centrale è costituito dalla povertà di reti e se tra i vulnerabili vi sono ancora molte risorse, il cuore della nuova generatività è la costruzione di disponibilità nei cittadini (soprattutto in quelli non già impegnati sul piano sociale e politico) a mettere a disposizione tempo, energia, passione e intelligenza per collaborare alla gestione di attività utili per sé e per altri.

La scommessa è promuovere azioni di sostegno reciproco, in grado di generare riconoscenza e restituzione, diventando così nel tempo autosostenibili perché capaci di attrarre investimenti di tempo e denaro della cittadinanza. In gioco non c’è dunque la creazione di nuovi servizi in capo alle istituzioni, ma la nascita di nuovi corpi intermedi (autonomi dal pubblico, ma sinergici con esso) la cui nascita e il cui sviluppo vanno accompagnati fino a che non riescano a procedere con le proprie gambe.

Ciò non significa delegittimare le istituzioni, ma anzi, nell’epoca della disintermediazione che sta riducendo sempre più il ruolo delle istituzioni a quello di un soggetto tra i tanti (disconoscendone la cruciale funzione di ‘casa di tutti’ e di decoder delle ideologie), significa ricostruire con-senso (senso costruito insieme): la Pubblica amministrazione costruendo, coi cittadini e con forze della società, risposte utili a problemi diffusi, fa crescere intorno a sé un alone di buone iniziative, di buone relazioni, di buona vita della moltitudine, (cioè di bene comune) rimette le istituzioni – e soprattutto la loro decisiva funzione- al centro della comunità. Questa svolta è dunque una grande opportunità per la democrazia.

Pivot insoliti (dotati di forte commercio relazionale)
Dobbiamo ricostruire le condizioni sociali (il con-senso) perché i diritti siano vigenti. Non vedo altra strada che la costruzione di una fitta rete di pratiche locali utili, costruite con pivot non solo afferenti all’area del welfare e Terzo settore (parole mie), rivolte al 100% della popolazione e fortemente connesse tra loro (in questo caso i social sono di grande aiuto).

Da diversi anni mi sono impegnato ad allestire queste nuove pratiche in diverse regioni del nord Italia. Ci sono esperienze molto “parlanti” al riguardo, come a Trento, dove si sta allestendo un sistema informativo vivente che parte dall’idea che le informazioni vadano a cercare i cittadini e non viceversa e a questo fine intende valorizzare persone che intercettano abitualmente per lavoro un numero consistente di cittadini: commercianti – baristi, parrucchiere, edicolanti – ma anche bibliotecari, vigili urbani, sportellisti delle filiali bancarie, eccetera. Questi soggetti vengono incontrati per capire come sta cambiando la comunità, vale a dire riconoscendoli come portatori di conoscenze. Questo passaggio li spiazza e li ingaggia. Successivamente viene chiesto loro se sono interessati a fornire informazioni ai cittadini perché ciò può essere utile per loro (un bar che dispone di informazioni relative al REI può risultare più attraente; una parrucchiera che sa come gestire i racconti di episodi di violenza familiare portati dalle donne mentre si lavano i capelli, può risultare un punto di riferimento, e così via).

L’esito, ancora in costruzione, è un servizio che pur dichiarando un obiettivo meramente informativo, in realtà è una rete tra pivot sociali inusuali in grado di intercettare un numero molto consistente di nuovi vulnerabili con un costo assai modesto.

La nascita di nuove forme di vita sociale va accompagnata
I tempi che viviamo stanno evidenziando come il fattore cruciale di ricchezza in una situazione con reti sociali in evaporazione, stia diventando la proattività, la capacità cioè delle persone di costruirsi contesti, relazioni, lavoro. L’assenza o la scarsa presenza di questa attitudine sta diventando il maggior fattore di ingiustizia sociale e dunque la vulnerabilità più grave, trasversale a tutti i ceti sociali. Perciò favorire la crescita della competenza di autocostruzione e autogestione è la strada più concreta per consentire alle persone di non rimanere schiacciate dalle criticità che stiamo attraversando. Se è vero che troppa presenza di professionisti del sociale può soffocare le dotazioni di resilienza di famiglie e persone, è vero anche che fiducia reciproca e solidarietà di vicinato non si creano in modo “naturale”, quasi per magia: le app, lo sharing e le affinità elettive possono favorirle, ma le reti sociali e famigliari sono sempre più deboli, sicché l’autoregolazione spontanea del ‘libero mercato della solidarietà produce quasi sempre disuguaglianze, binari morti e intermittenze nella continuità delle azioni.

Ciò che fino a trent’anni fa ci appariva lo scenario naturale su cui si svolgeva la scena del nostro mondo quotidiano (le reti famigliari e sociali) non funziona più automaticamente. Il sociale va riallestito. A questo scopo occorrono competenze nuove: scouting (andare a cercare le risorse della società, soprattutto talenti nascosti), brokering (mixare queste risorse, componendo le diverse propensioni e aspettative); tutoring (accompagnare la crescita di nuove forme di vita sociale perché possano progressivamente proseguire con le proprie gambe); capacità di aggancio (lettere a casa, mail, manifesti sembrano strumenti obsoleti per persone in autoesodamento dalla cittadinanza, bisognose di comunicazioni personalizzate); capacità di attivazione (le persone una volta agganciate non diventano automaticamente attive se non vengono ascoltate; chi allestisce queste esperienze è chiamato a mettersi in una posizione simmetrica; anche se abbiamo due lauree in discipline sociali non possiamo portare le persone dove vogliamo noi: non ci servono seguaci, ma collaboratori, soggetti con capacità di iniziativa; alle persone viene voglia di attivarsi se si identificano coi prodotti da costruire; difficile che si identifichino in qualcosa che non hanno contribuito a definire).

Ciò che però serve innanzitutto è uno sguardo in grado di leggere i fenomeni qui sommariamente descritti e di individuare le possibili strategie per allestire risposte. Serve insomma lo sguardo ampio di chi è in grado di allestire una scena perché l’allestimento di contesti sociali è la competenza centrale. Più che una collezione di specialismi serve una visione d’insieme, una capacità di vision simile a quella di un regista che coglie non solo le interdipendenze tra le varie parti (teoria dei sistemi), ma è anche in grado di prefigurare il disegno complessivo di una scena realizzabile in un contesto (a diversi livelli di ampiezza).

È ciò a cui siamo chiamati tutti in questo momento (operatori del welfare, volontari, politici, operatori della pastorale); anche il volontariato tradizionale, al pari degli altri, ha la responsabilità di accompagnare la nascita delle nuove pratiche di partecipazione che si stanno sviluppando e porsi in una logica educativa.

La grande opportunità ci è data dal fatto che il vertice del mondo è la vita quotidiana: un dato evidente, ma negato dal pensiero dominante. È qui che possiamo preservare e sviluppare lo specifico umano rispetto alle semplificazioni che un certo utilizzo delle tecnologie sta inducendo. Le relazioni faccia a faccia assumono perciò una valenza strategica.

Su queste il volontariato ha una grandissima esperienza. Dunque il lavoro di cura, competenza messa in campo dal volontariato da decenni, è una chance molto importante che offre al volontariato la possibilità di giocare un ruolo chiave nell’evoluzione di questa situazione. Serve però uno sguardo più ampio per poter agire nel micro con efficacia pacata, ma chirurgica.

(da Vdossier numero 2 anno 2018)

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