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Sharing, non solo tecnologia ma modello di servizio per costruire la comunità

CSV Milano2022-06-10T14:25:05+02:00
Pubblicato il
15/09/2018
Di CSV Milano
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Marta Mainieri, fondatrice di Collaboriamo.org e di Sharitaly, spiega perchè l’economia collaborativa abbia innescato una vera rivoluzione culturale che mette al centro la fiducia

di Silvia Cannonieri

Milano, luglio 2018 – Fondatrice di Collaboriamo.org e curatrice di Sharitaly – evento interamente dedicato alla sharing economy in Italia -, Marta Mainieri spiega come l’economia collaborativa sia portatrice di una trasformazione culturale. Non soltanto tecnologia, lo sharing è un mo dello di servizio che favorisce la costruzione di comunità e riporta l’idea di comportamento fondato sulla fiducia, al centro di processi di trasformazione dei territori.

Che cosa si intende per economia collaborativa e dove sta la sua componente innovativa?
Accesso e riuso sono le parole chiave attorno alle quali si è costruita la prima narrazione sulla sharing economy. Il termine inglese si potrebbe tradurre letteralmente con “economia della condivisione”, ma io preferisco utilizzare il termine “economia collaborativa” che porta con sé una trasformazione più ampia e corretta secondo il mio modo di pensare. Il modello di servizio dell’economia collaborativa favorisce l’incontro tra la domanda e l’offerta di beni, competenze, spazi o tempo. Questo distingue i servizi collaborativi da quelli tradizionali per almeno due tratti: l’abilitazione e la co-progettazione del servizio stesso. In un modello collaborativo c’è qualcuno o qualcosa che, nella logica della piattaforma, mette  in contatto la domanda e l’offerta e così facendo abilita alla co-costruzione del servizio, creando attorno ad esso una community, ovvero una comunità di interesse. Un comunità che ne condivide il valore, l’idea e che partecipa alla sua costruzione.

E questa dimensione orizzontale distingue il modello collaborati- vo da quello in uso nelle coope- rative tradizionali che, pur na- scendo attorno a una comunità di soci che condivide un valore, organizzano i servizi dall’alto e successivamente li erogano. Un servizio collaborativo, invece, è proposto da chi ha l’idea e ha come obiettivo la costruzione della comunità di chi lo mette in pratica, ne condivide il valore e lo alimenta. Lo scambio diventa così l’oggetto attorno al quale si costruisce una comunità, mentre l’incontro tra le persone diviene la linfa vitale del servizio. Un approccio che si sposa bene con i valori su cui si fondano le as- sociazioni, ovvero la creazione di relazioni, di legami, di comunità, di fiducia.

Quale rapporto tra economia collaborativa e tecnologia?
La tecnologia ha abilitato e fatto conoscere l’economia collaborativa, ma oggi i servizi collaborativi stanno contaminando anche molti spazi sul territorio. Di certo la tecnologia ne è stata  il principale propulsore, consentendo di scalare, cioè di portare su un piano più ampio, qualcosa che in passato già si faceva, per renderlo un processo attivo e facilmente raggiungibile. Quello che facevano i vicini di casa, un tempo, è stato rinnovato e reinventato attraverso la tecnologia: pensiamo alle Social street e al ruolo di Facebook. Se ho bisogno di un trapano, posso chiederlo in tempo reale nel gruppo Facebook della mia Social street e troverò in brevissimo tempo qualcuno che me lo presta. Oppure, per fare un altro esempio, in passato nessuno pensava di mettere in condivisione una casa, mentre ora questo è reso possibile dalle tecnologie. O ancora, in passato per avere un passaggio in macchina si faceva l’autostop e se non passava nessuno si restava per lungo tempo ad aspettare che qualcuno ci caricasse. Ora non solo si può condividere un passaggio in macchina, ma lo si può anche pianificare in anticipo, ad esempio attraverso BlaBlaCar. La tecnologia ha abilitato lo scambio e ha permesso di immaginare nuovi servizi. Ma rimane comunque uno strumento che deve essere usato solo se produce effettivamente un valore. Prendiamo ad esempio un’associazione come la milanese Recup, la cui attività consiste nel recuperare le eccedenze alimentari, andando nei mercati, per redistribuirle a chi ne ha bisogno. Il suo obiettivo è quello di creare una community di persone unite dall’intento di ridurre lo spreco del cibo, favorendo il matching tra chi ha interesse a donare del cibo e chi ha interesse a prenderselo. Per Recup, quindi, la creazione di una comunità nel territorio è un elemento indispensabile per il funzionamento del servizio, altrimenti la sua attività gira a vuoto. Il modello che adotta ricalca esattamente quello di un servizio collaborativo, che mette in contatto la domanda con l’offerta e vi costruisce attorno una comunità di interesse, ma non lo fa attraverso la tecnologia, bensì attraverso il contatto diretto, ovvero andando nei mercati. La sua attività è fortemente dipendente dalla dimensione territoriale: se, ad esempio, qualcuno dona del cibo a Matera e qualcun altro ne ha bisogno a Milano, il servizio non serve a nulla. Per una realtà come Recup, di conseguenza, è molto più utile un luogo fisico di incontro tra domanda e offerta, piuttosto che un luogo virtuale. Un luogo fisico, però, che svolge lui stesso la funzione di una piattaforma.
L’elemento culturalmente rivoluzionario dell’approccio collaborativo, quindi, non è rappresentato dalla tecnologia, ma dal suo modello di servizio che può essere applicato ad ogni ambito e luogo.

La sharing è un modello di servizio che costruisce la comunità del domani e riporta l’idea di collettività, di comportamento fondato sulla fiducia al centro di processi di trasformazione dei territori. Come questo sta accadendo?
Stiamo assistendo a una diffusione delle pratiche collaborative sempre più capillare nei territori. Stanno nascendo esperienze di mercati rionali o bar che diventano portinerie di quartiere, di edicole che diventano luoghi di incontro tra professionalità di- verse, di coworking che si stanno trasformando in community hub, ovvero centri di abilitazione del territorio nei quali i cittadini possono incontrarsi. Se è quindi vero che la tecnologia ha sicuramente aperto la strada, è altrettanto vero che  i  modelli collaborativi hanno iniziato a trasformare gli spazi in luoghi, trasferendo nei territori le occasioni di incontro e di scambio. La tecnologia e i social, pur con tutti i loro “lati oscuri”, ci hanno abituati a metterci in contatto e a scambiare anche tra sconosciuti, innescando così un movimento culturale che impatta sui modelli organizzativi e di servizio. Modelli che possono facilitare la ricostruzione di tessuti sociali più coesi e il recupero di una dimensione più collettiva. Modelli che stanno iniziando a contaminare anche altri settori, quali le politiche per l’abitare, per il welfare o i progetti di rigenerazione urbana. Ed è attraverso il loro incontro che l’online e l’offline hanno innescato delle combinazioni inedite e generative.

In un articolo per Nova del Sole 24 ore, lei parla della diffusione di vere e proprie filiere in cui il digitale e il territorio si alimentano reciprocamente.
Dai nuovi bisogni che si creano attorno alle piattaforme nascono nuovi servizi, quali ad esempio l’associazione OspitaMi, nata da un gruppo di host milanesi sul filone dell’home sharing avviato da Airbnb, che offre supporto, informazioni, convenzioni alla comunità di host che praticano la locazione turistica. Oppure i servizi anti-spreco nati sui territori dalla filiera del social eating, come il già citato Recup, o piattaforme digitali come L’Alveare che dice Si! sorte per supportare i gruppi di acquisto, per sostenere i produttori locali e promuovere un consumo alimentare consapevole e sostenibile. Una economia collaborativa che guarda  con  crescente  interesse alle partnership fra servizi, i servizi collaborativi, oltre che di beni, che si alimenta nei territori e li contamina, che nasce dai bisogni delle persone e che mette in contatto, attraverso piattaformE, le organizzazioni e le comunità. Questa forte connessione con il territorio e con le comunità che lo vivono ogni giorno potrà rappresentare, per la sharing economy, la chiave per tessere una trama di nuove relazioni, per generare fiducia e senso di collettività, per innescare un modello virtuoso nel quale la tecnologia diventa uno strumento al servizio dei territori.

(da Vdossier numero 1 anno 2018)

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