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Associazioni tolemaiche. Rimettiamo al centro giovani ed educazione

CSV Milano2022-06-10T14:07:55+02:00
Pubblicato il
16/06/2010
Di CSV Milano
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Per il sociologo Maurizio Ambrosini il crack finanziario potrebbe essere un’occasione per ripensare ad un funzionamento della società

di Elisabetta Bianchetti

Milano, maggio 2010 – «La crisi ha un doppio volto», esordisce Maurizio Ambrosini. Ma subito s’interrompe. Si alza, prendere il dizionario e legge: «Il termine greco krìnein ha la stessa radice di discernimento». E comincia a ricomporre il puzzle del suo pensiero: «La crisi, quindi, è anche vaglio, momento di verifica, passaggio e forse anche cambiamento. Ecco perché l’esplosione di questo crack finanziario potrebbe essere l’occasione propizia per ripensare al funzionamento della società e dell’economia e, magari, anche dei nostri sistemi culturali». Qualcosa si sarebbe già mosso: «Infatti, dopo l’ubriacatura finanziaria, c’è stato un maggiore sguardo critico, il cui esito è stata l’introduzione di nuove regole, più severe, e una spinta a maggiori controlli». Più lenta è la ripartenza sul piano culturale. «Ma si sa che è così. Perché i valori sono un terreno insidioso sul quale muoversi. E qui, un cambiamento è più difficile, richiede un lavoro certosino, di semina, di cura, di crescita e solo col tempo si arriva al raccolto». Sul piano politico, invece, «l’idea che il mercato sia la risposta a tutti i problemi e che lo Stato debba imporre il minor numero possibile di regole, mi pare un’altra leggenda che è stata sfatata dalla crisi e mi auguro che non si torni indietro rispetto a questa acquisizione».

Ambrosini parla nella doppia veste di professore di sociologia all’Università degli Studi di Milano e di presidente dell’associazione volontari di Caritas Ambrosiana, da anni impegnato nello studio del fenomeno delle migrazioni e dell’associazionismo, soprattutto con uno sguardo mirato alla partecipazione dei giovani e all’orientamento al volontariato. «La crisi, dunque, ci consente di ripensare ad alcuni aspetti del funzionamento delle nostre società, in particolare al rapporto tra politica ed economia». Il docente di sociologia entra nel cuore del problema. «È chiaro che è più difficile un ripensamento della vita delle famiglie e dei suoi sistemi dei valori. Qui colgo che ci sia un bisogno di continuità con il passato e, quindi, la speranza di tornare a crescere come prima e di poter ambire a conservare e, magari, incrementare i livelli di benessere precedenti».

Milano, la metropoli che rifiuta il cambiamento
Da questo punto di vista, «se c’è un effetto della crisi più negativo, è la ricerca del capro espiatorio. Aumenta il rancore nei rapporti sociali e forse una maggiore chiusura nei confronti di componenti più deboli e percepiti come estranei. Mentre il disoccupato italiano è oggetto di uno sguardo simpatetico: è uno di noi, merita di essere aiutato. Il disoccupato straniero invece molto meno. L’irregolare, anche per effetto della crisi, è addirittura percepito come una presenza ingombrante e disturbante, malgrado sia una figura transitoria che prima o poi fuoriesce dalla rarità e dall’eccezionalità, come vediamo dalle recenti sanatorie. I rom, infine, sono oggetto di una esclusione sociale dura, che la crisi probabilmente accentua. E se molti disoccupati fanno fatica a trovare un lavoro, i gruppi deboli e stigmatizzati ne hanno ancora di più».

L’analisi di Ambrosini non frena su l’autocritica, piuttosto porta un atto di accusa al capoluogo lombardo. «A Milano c’è una tendenza ad irrigidire i rapporti sociali. Così come a escludere le fasce della popolazione considerate più disturbanti. La metropoli vive una contraddizione tra la sua natura multietnica e la resistenza ad accettare i cambiamenti. Questo fenomeno appare come un tentativo vano di riportare indietro l’orologio della storia». Nella sua requisitoria il professore prova a demolire una definizione consolidata: “Milano capitale del volontariato”. «È una leggenda. E lo affermo anche dal punto di vista della diffusione del volontariato. Perché qui occorre fare una distinzione importante: un conto sono le sedi di numerosi associazioni, un altro è la pratica del volontariato. Se osserviamo il numero di aderenti al volontariato rispetto al numero di abitanti, Milano al confronto con altre città, è in una posizione di bassa classifica. Sono le città di medie dimensioni quelle dove c’è più partecipazione associativa.
Quindi quella di Milano capitale del volontariato è una bufala, che è parente stretta di quella che indicava Milano come capitale morale. Anzi, in particolare, Milano si distingue per la caccia ai rom e agli immigrati irregolari. Una linea dura che si è acuita negli ultimi anni per mezzo delle delibere contro la mendicità approvate dagli enti locali che possono farlo grazie al consenso elettorale ottenuto dalla popolazione».

Il discorso di Ambrosini scivola neanche troppo velatamente a un j’accuse alla classe politica e al governo. «Questo visibile irrigidimento dei rapporti sociali è incentivato da una certa politica. Per fare un esempio, a Bergamo l’Ufficio della promozione della pace è stato trasformato in Ufficio per la sicurezza del territorio; e questo è emblematico di ciò che sta succedendo in Lombardia, dove i temi della sicurezza stanno prendendo il posto dei temi della solidarietà».
Ma in questo tessuto sociale come si comporta il volontariato milanese? «È certo che le associazioni lamentano una crisi, soprattutto quelle con più tradizione. Oggi le persone sono meno disposte a prendere delle tessere ed è ormai ricorrente, nei convegni e negli incontri, sentire questo lamento, cioè la difficoltà a trovare volontari. Forse la realtà non è tutta così perché in realtà c’è una trasformazione del volontariato verso forme più sporadiche, occasionali, situazionali, non così vincolanti come quelle di appartenenza».
Quindi il rapporto tra giovani e volontariato appare oggi più problematico di un tempo. Da qualche anno, infatti, da più parti viene posta in dubbio la disponibilità dei giovani a dedicarsi gratuitamente agli altri, e quindi ad assicurare il ricambio generazionale delle risorse umane del mondo del volontariato. Su questa linea Ambrosini ha le idee chiare: «Per esempio, il Festival della letteratura di Mantova che dura alcuni giorni e richiede un volontariato che non ha bisogno di tessere o appartenenze forti, coinvolge centinaia di giovani. E così altre manifestazioni legate ad eventi che richiedono una partecipazione limitata nel tempo come disponibilità. Questo andamento è legato ad un aspetto molto diffuso nella nostra cultura contemporanea. La curiosità, la voglia di esserci, nelle occasioni percepite come importanti, è indubbio che raccolga consensi. Mentre c’è difficoltà a coinvolgere in modo continuativo i giovani che faticano ad assumere delle identità definite come appartenenza a qualche cosa. Così come è più difficile aderire ai partiti, ai sindacati, in generale alle associazioni e quindi al volontariato».

La colpa delle organizzazioni? L’eutanasia del ricambio
Non ha dubbi Ambrosini, «il non profit milanese dovrebbe sviluppare maggiormente una capacità di orientamento e di ascolto della domanda di volontariato. In buona misura, il volontariato è “tolemaico”. Si pone cioè al centro e vuole che le persone girino intorno a lui. Un centro che è definito dall’associazione, dalle sue strategie e dalle sue esigenze. Il volontariato di fatto cerca braccia per mandare avanti il progetto dell’organizzazione e confermarne la leadership. Anche quando le associazioni dicono di fare orientamento, lo fanno tentando di convogliare i candidati verso se stessi. Invece la strada da perseguire è un’altra: perché fare orientamento, vuol dire ascoltare che cosa le persone desiderano, che cosa chiedono e proporre loro una gamma più ampia di possibilità».

A questo proposito il sociologo milanese propone un suggerimento: “Va sviluppata maggiormente un’idea di sperimentazione, proponendo delle giornate “A porte aperte”, così come si fa nelle scuole o nelle facoltà universitarie. Le associazioni devono capire che la proposta di volontariato è un servizio che si fa ai giovani per aiutarli a crescere. L’idea surrettizia, invece, è quella di farli venire nell’associazione e di metterli ai nostri ordini. Quindi occorre una visione alta del proprio ruolo». E per dare ossigeno a questa visione alta bisognerebbe istituire una sorta di agenzie educative ad hoc, che mettano a punto e predispongano dei percorsi di informazione e formazione nei quali i giovani possano fare esperienze di senso, di miglioramento di sé, di acquisizione di competenze e di capacità partecipando alle attività di volontariato. «È vero che queste esperienze ci sono già, ma hanno un difetto: mancano di una vera strategia, non seguono un percorso educativo strutturato. Di conseguenza per arrivare a questo traguardo la strada è ancora lunga.
Ma il primo passo da compiere sarebbe quello anzitutto di incrementare la formazione dei responsabili delle organizzazioni. Su questo tasto a Milano e in provincia bisogna ammettere che siamo carenti. Infatti è evidente che quando si affronta l’argomento formazione subito si risponde che essa è una priorità. Ma si omette di dire che la si fa soltanto per volontari. E non per i dirigenti. O meglio, come si dice a Napoli, tutti pensano di essere “già imparati”».

Ambrosini, inoltre, vorrebbe allargare il cerchio della formazione coinvolgendo anche altri organismi. Da qui la proposta di percorsi mirati e opportunità di orientamento frutto di una collaborazione con altri enti educativi, come le scuole e le università. «Occorre che il volontariato faccia un investimento sulla propria capacità di accoglienza e di accompagnamento nei confronti dei giovani e delle persone che vanno alla ricerca di qualcosa in cui impegnarsi. Emerge infatti con sempre maggior evidenza e insistenza che sono in tanti coloro che vorrebbero investire capacità, risorse, energie e tempo per gli altri, forse spinti da un semplice desiderio, da un’emozione, ma non sanno né come farlo né spesso hanno una piena coscienza del senso del loro impegno». Quindi, al contrario di quanto spesso si afferma, l’Italia non occupa una posizione di leadership per quanto riguarda la cittadinanza attiva e il sentirsi parte viva del tessuto sociale. «Direi proprio di no – asserisce Ambrosini -. Guardiamo, per esempio, al mondo anglosassone, dove il volontariato ha una robusta tradizione educativa, con un florido collegamento con scuole e università, e una predisposizione di percorsi che confluiscono
anche in forme di servizio civile. Inoltre sono molto più elevati i senior, cioè le persone che arrivano alla pensione e che nell’ultima parte della propria vita si dedicano al volontariato».

Le élite italiane disertano l’impegno nel non profit
In Italia, invece? «Il volontariato delle fasce qualificate è scarso. Le élite italiane disertano l’impegno nel non profit perché lo concepiscono come un impegno da cattolici o da classe medio bassa che non ha niente di meglio da fare. Non gioca a golf non va in barca, e quindi fa volontariato. All’estero non è così. Fare volontariato è un onore per un ex dirigente, per un ex professionista. Poi ci sono molte aziende che nel proprio codice etico prevedono attività nel Terzo settore per i propri quadri persino durante l’orario di lavoro. In Italia non esistono esperienze di questo tipo. Anzi, soprattutto a Milano vige una legge non scritta che è “fatevi i vostri interessi!”. Ma correndo su questo binario si arriva a comportamenti assurdi e incivili come quello che ho vissuto in prima persona gareggiando alla corsa agonistica “Stramilano”, dove c’erano le macchine in coda che suonavano e inveivano contro i maratoneti perché erano ferme a causa loro. Questo non accade in altre città italiane. A Firenze, a Napoli, ti applaudono, scendono dalla macchina e ti incitano. Questa è una tipica sindrome milanese “devo fare i miei interessi e chi mi ostacola mi fa perdere tempo”. Fra le elite italiane resistono solo alcune sacche minoritarie, come i medici che svolgono lavoro volontario negli ambulatori collegati alle mense dei poveri. E che oltretutto si sono ribellati alla norma contenuta nel pacchetto sicurezza che li voleva obbligare a denunciare gli irregolari. Ma, seppur agguerrite, sono minoranze scollegate dal sentire della gran parte dei cittadini».

(da Vdossier numero 1 anno 2010)

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