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La sfida ai nazional-populismi. Cooperazione&sostenibilità antidoto agli errori di Bruxelles

CSV Milano2019-04-11T00:00:00+02:00
Pubblicato il
11/04/2019
Di CSV Milano
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Sfiducia nell’Ue, partiti sovranisti in crescita, politiche anti-immigrazione e dominio del Pil: l’Europa è malata. L’analisi dell’economista Fitoussi e del sociologo Beck

 

di Paolo Marelli

«Meno governo delle regole, più governo delle scelte». Il futuro dell’Unione europea potrebbe cominciare da qui. Da questa formula che suona come uno slogan. Ma che per l’economista francese Jean Paul Fitoussi e la medicina di cui avrebbe bisogno la governance dell’Ue per sconfiggere l’euroscetticismo. Dopotutto lo scenario e cupo. Sei italiani su dieci (il 64%) chiedono un cambio di rotta politica all’Ue, sostiene un sondaggio dell’istituto Demopolis per il settimanale “L’Espresso”. Dati che, per numerosi analisti, non si discosterebbero dalle percentuali riscontrate in altri Paesi. Lungo la Penisola, un italiano su quattro (il 26%) non crede più nell’Unione europea.

Una disaffezione raddoppiata dal 2006: era il 51 per cento. Nel 2010 soltanto il 15 per cento dei cittadini invocava un ritorno alla lira, oggi il 28 per cento vorrebbe uscire dall’euro. Questa fotografia in cifre conferma quanto la fiducia nell’Ue sia scesa ai minimi storici. Trema, dunque, la fortezza Europa e Fitoussi, con un piede a Parigi (insegna all’Institut d’Etudes Politiques) e uno a Roma (insegna alla Luiss), scruta l’orizzonte senza sorrisi: «La fragilità delle istituzioni comunitarie rischia di farci precipitare nell’instabilità sociale».

I mali che rischiano di uccidere l’Unione
A minare l’Unione sarebbero populismi al potere, sovranismo montante, derive autoritarie in agguato. Stando a pollofpolls.eu, portale che monitora le intenzioni di voto, dalle prossime urne di maggio su 751 poltrone del Parlamento di Strasburgo 107 andrebbero ai movimenti nazionalisti; 57 a “Europa delle nazioni e libertà”, la famiglia “hard” della Lega; 50 a Europa della libertà e democrazia”, la famiglia “soft” dei Cinquestelle. Uno scenario preoccupante per Susi Meret, esperta di populismi con cattedra alla danese Aalborg University: «I sovranisti ipotizzano un’Europa ai minimi termini. Spingerebbero per svuotare l’Ue della sovranità su giustizia, immigrazione, affari interni. Chiederebbero uno sforamento dei parametri di Maastricht».

Podemos in Spagna, Syriza in Grecia, Alternative für Deutschland in Germania, Lega e M5S in Italia, Front National in Francia, Partito per la libertà in Austria e Olanda: il risentimento populista di oggi, a differenza di quello del passato, è motivato dal fallimento della governance dell’integrazione europea. Non a caso il sovranismo di Salvini, della francese Marine Le Pen, del danese Kristian Dahl, del polacco Jarosław Kaczyński, dell’ungherese Viktor Orban, dell’austriaco Norbert Hofer è anti élite, anti islamizzazione, contro l’immigrazione e a favore di una maggiore autonomia nazionale nelle politiche economiche. Spettri che Fitoussi vede aggirarsi nelle capitali dell’Europa. Fantasmi che gli fanno giudicare come «irragionevole quello che accade oggi». Complice anche la lista dei mali che stanno affliggendo il Vecchio continente: «L’allarmante livello di disuguaglianza e di disoccupazione. La massa delle carriere interrotte e il numero incredibile di persone che non riescono nemmeno ad avviarne una. I tanti che si arenano a qualche anno dalla pensione. Di contro, ci sono l’enormità delle fortune accumulate [da pochi] e l’oscenità di alcune remunerazioni. Infine, l’insicurezza generalizzata che regna nei Paesi ricchi». Da qui l’interrogativo: «Siamo diventati più egoisti, o ci siamo abituati a questa evoluzione del nostro ambiente avendo perso la speranza di poterlo cambiare?». Risposta: «Ci sono un po’ tutte e due le cose nel nostro nuovo contratto sociale. È evidente che si dà sempre maggiore importanza alla competizione, limitando parallelamente quella della cooperazione», spiega Fitoussi nel suo “Il teorema del lampione” (Einaudi 2013).

Ma è difficile trovare spazio per collaborazione e solidarietà se si è prigionieri di una gabbia economica troppo rigida. Se, come sostiene il politologo Maurizio Ferrera, l’Ue non si dota di «un’agenda di policy più ampia e più benevola verso le istanze sociali». Verso una cornice e un’agenda impegnate a far sì che «l’Europa non sia solo uno “spazio” (space) ma anche un “posto” (place), capace di ispirare fiducia e nel quale i singoli cittadini possano sentirsi davvero al sicuro» in quanto parte di una comunità. Uno quadro possibile e desidera-bile per Ferrera, perché è quello che meglio promette di preservare quell’equilibrio di libertà, uguaglianza e fraternità che è il tratto distintivo della civiltà europea.

Se l’Europa che uscirà dalle urne non imboccherà questo sentiero di cooperazione e solidarietà, la conseguenza sarà un allargamento del terreno fertile su cui prosperano gli estremismi. A cominciare dal populismo di destra che sta già dilagando. Tanto che il Parlamento di Strasburgo teme di risvegliarsi il 27 maggio con un’aula affollata di sigle sovraniste, risultato di un voto che indebolirà i macroschieramenti di centrodestra (Popolari) e di centrosinistra (Socialdemocratici).

Un pericolo che ha già spinto l’assemblea a dedicare lo scorso ottobre un dibattito plenario alla crescita dei neofascismi e a dichiarare guerra ai movimenti xenofobi e intolleranti. Virus che secondo Ulrich Beck, sociologo e scrittore tedesco, rischiano di rimodellare «la politica continentale sui temi dell’immigrazione, dell’identità nativa e dell’islam». I musulmani, stando a uno studio condotto da Pew Research Center, sono in costante aumento nei 28 Paesi Ue, più Norvegia e Svizzera: erano 19,5 milioni nel 2010 (pari al 3,8% della popolazione totale), sono saliti a 25,8 milioni nel 2016 (pari al 4,9%). Numeri che, per Beck, confermano che «l’Unione europea non può essere un club esclusivo, dominato dalla burocrazia, dalla finanza e chiuso al mondo». Un mondo diventato cosmopolita «non per scelta bensì per con-dizione, poiché l’“altro globale” è in mezzo a noi. L’altro, lo straniero, che sia di altra nazionalità o religione, non può più essere escluso».

Viviamo in un microcosmo della società globale
Si era rammaricato Beck quando la cancelliera tedesca Angela Merkel aveva decretato la “morte del multiculturalismo”, poiché quest’affermazione non fa i conti con la realtà: «In Germania, per esempio, un terzo dei bambini al di sotto dei cinque anni vive all’interno di famiglie binazionali; nelle scuole materne nei vari Lander è abbastanza comune che i più piccoli parlino più di diciotto lingue diverse. La retorica del multiculturalismo morto rinvia a qualcosa che non esiste più, che è diventato un’illusione diffusa in un mondo globalizzato: la favola conservatrice dello sguardo nazionale».

Riflessioni fatte proprie da una classe di intellettuali europei che considera anacronistici il “prima gli italiani” di Matteo Salvini; l’“America first” caldeggiato da Donald Trump; l’etica del “going alone” che per alcuni versi ha ispirato la Brexit, ma che si sta rivelando un boomerang politico, economico e sociale, al di là degli schieramenti dei “Leave” o “Remain” che si fronteggiano Oltremanica.

Ormai secondo Beck «l’Europa sta diventando una rete aperta, con confini fluidi, in cui l’esterno è sempre più interno. L’Europa è un microcosmo della società globale. Ed è fuor di dubbio che l’attuale stato dell’Ue meriti critiche, in particolare il modello voluto da Bruxelles. Ma dove si dovrebbero cercare i riferimenti di tale critica? Nell’autorappresentazione nazionale? Nelle lamentele per la perdita di sovranità nazionale?» No è la risposta di Beck. «Il concetto di Europa cosmopolita fa emergere una forma di critica della realtà dell’Unione che non è nostalgica e nazionale, ma radicalmente europea. Molto dell’attuale stato dell’Ue non è europeo. Ecco perché l’Europa è para-lizzata. La diagnosi della crisi è “troppo poca Europa”, mentre il rime-dio terapeutico è “più Europa”, ossia un continente più cosmopolita». «È proprio perché – ha scritto ancora Beck – i valori europei sono europei che non sono legati ad alcuna religione o eredità culturale in particolare. Nessuno direbbe: questa persona è cattolica, è di Torino e quindi non può essere democratica. Eppure agli occhi di molti europei nazionalisti essere musulmano, [provenire dal Maghreb], costituisce ancora una discriminante di tipo totalitario della possibilità di essere “veramente” democratico».

Di sicuro la solidarietà non è legata né alle religione né alla cultura, ma guardando alla mappa dei valori europei, quale posizione assegnarle? Per il sociologo tedesco non ci sono mai stati dubbi: un posto di primo piano. Ma a patto che il non profit sappia interrogarsi su questi argomenti se non vorrà sbarrarsi le vie del proprio futuro, se vorrà trovare risposte ai bisogni della società civile in cui è immerso. Ma per farlo deve dotarsi di una rappresentanza più solida. Ancora Beck:«Se il volontariato non si coalizzerà per far sentire la propria voce alle istituzioni, per convenienza elettorale una classe politica continuerà a chiudere gli occhi di fronte a un mondo globale. Politici inconsapevoli che, per mezzo del progresso tecnologico, per una fa-miglia borghese di Amman, o del Cairo, i costumi e i valori di un abitante di un villaggio dell’Anatolia non sono meno estranei di quanto non lo siano per persone dello stesso ceto che vivono a Milano, Parigi o Berlino».

L’integrazione possibile: un dibattito, tre vie
Da questa lunga riflessione, si giunge a una prima conclusione: cooperazione, inclusione e non profit possono essere strumenti per il fine più alto dell’integrazione. Possono essere il collante per tenere insieme trasversalmente gli europei. Di sicuro essi possono essere la linfa che nutre le tre vie teorizzate dai politologi per assicurare una democrazia a tutto tondo all’Unione.

La prima opzione, la sovranità nazionale (quella che solleva più scetticismo). È il primato dello Stato-nazione che presuppone un sistema di governo che tragga origine da una storia condivisa e che esisterebbe proprio grazie alle differenze rispetto alle altre comunità. Ma visto che l’Europa non può soddisfare questi presupposti, questa via rimarrebbe per tanti studiosi un’utopia.

La seconda opzione, un’Europa sovranazionale: un’Europa federale come sola strada percorribile per salvaguardare le conquiste raggiunte dal welfare state nazionale, conquiste ora messe a rischio dalla globalizzazione. Un’opzione questa che però è davanti a un bivio: meglio una federazione centralizzata e dirigista oppure un’Europa federata, ma decentrata e minimalista, come proponeva Friedrich von Hayek negli anni Trenta?

C’è infine una terza opzione, la demoicrazia: un sistema di governo basato sulla collaborazione fra popoli (i loro rappresentanti eletti), che decidono insieme, ma non come un solo corpo politico. È la via più originale e, come tale, più difficile da assimilare. Eppure, forse, è anche quella che potrebbe spianare la strada per un’autentica integrazione, come sostiene Kalypso Nicolaidis dell’Università di Oxford, che ne ha scritto per la prima volta nel 2003. Nel dibattito attuale la demoicrazia riscuote consensi, ma guai a considerarla la tradizionale via di mezzo tra la prima e la seconda opzione. Semmai essa mira a una rivoluzione culturale, creando un’Europa unita che permetta però agli Stati stessi di rimanere separati. Come? Con un approccio più flessibile nel governo dell’Eurozona e nel contempo con incentivi affinché i governi nazionali internalizzino il criterio della riduzione del danno verso gli altri Paesi. Spiega il politologo Ferrera: «Il punto di partenza deve essere un ragionamento sui diritti e doveri di reciprocità fra demoi (popoli) a fronte dei rischi da affrontare. Quali dipendono dalla comune appartenenza alla Ue? L’invecchiamento demografico riguarda tutti i Paesi membri: ma non dipende dalla Ue. Le conseguenze avverse di uno shock asimmetrico (recessione, disoccupazione, deficit e così via) sono invece in buona parte connesse alle politiche Ue (troppi vincoli; mancanza di sostegni mirati). E lo stesso vale per i costi sociali dei flussi migratori intra-Ue, fortemente asimmetrici. Per questi rischi è “giusto” e doveroso promuovere forme di solidarietà demoicratica. Ad esempio creando schemi di assicurazione sociale a cui tutti i Paesi contribuiscano obbligatoriamente, per compensare chi è colpito da uno dei rischi comuni».

Non il Pil, ma la sostenibilità misura il benessere
Contro il governo delle sole regole, contro l’eurocrazia, contro la dittatura “benevola” della Bce, i politologi del Vecchio continente suo-nano un triplice spartito: Europa sovrazionale, o federale, oppure demoicratica? Cercando una risposta, per chiudere il cerchio non può mancare un riferimento alla sostenibilità. Che è un altro cavallo di battaglia di Fitoussi, come la denuncia dell’incompletezza e della parzialità degli strumenti di misurazione economica, a cominciare da quelli del Pil.
A livello macroeconomico, l’economista francese ritiene che la «sostenibilità implica che gli individui e le loro famiglie pensino che in futuro i propri figli e nipoti avranno una vita, se non migliore, almeno buona come quella di cui i loro genitori e nonni godono nel presente».

Non c’è dubbio, a suo avviso, che qualora «la maggioranza delle famiglie nutra speranze del genere, le società diventino più tolleranti, più eque e più attente alla democrazia. La paura del futuro fa emergere al contrario atteggiamenti protezionistici, politiche non cooperative e lo sviluppo di sentimenti anti-immigrazione». Niente di cui sorprendersi: «La precarietà e le disuguaglianze, che sono il contrario della sostenibilità, sono di ostacolo a una vita buona. Per questo il processo sociale, ossia ciò che già importa alle persone, va di pari passo con la sostenibilità». Una questione di scelte, non di regole.

GRANDANGOLO
Maurizio Ferrera, Rotta di collisione. Euro contro welfare? Laterza, 2016

Jean-Paul Fitoussi, Il teorema del lampione o come mettere fine alla sofferenza sociale, Einaudi, 2013

Joseph Stiglitz, Amartya Sen, Jean-Paul Fitoussi, La misura sbagliata delle nostre vite. Perché il PIL non basta più per valutare benessere e progresso sociale, Rizzoli Etas, 2010

Ulrich Beck, La crisi dell’Europa, Il Mulino, 2012

Ulrich Beck, La metamorfosi del mondo, Il Mulino, 2017

Justine LaCroix, Kalypso Nicolaidis, European Stories: Intellectual Debates on Europe in National Contexts, Oxford University Press, 2011

(da Vdossier numero 3 anno 2018)

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